Napoli, 15 Febbraio – Il pensiero di Soren Kierkegaard è di capitale importanza per la profondità con cui interroga la filosofia del suo tempo e perché, dal suo posto privilegiato nella storia dell’Ottocento, ci spinge a riflettere su ciò che ogni indagine filosofica presuppone: l’incertezza dell’essere umano nel significato ultimo dell’esistenza.
Ai tempi in cui Kierkegaard scrive e pubblica le sue opere, la filosofia è concepita come una scienza e la scienza aspira tanto alla sistematizzazione del sapere quanto alla strutturazione dell’universo morale. Per rispondere a questo duplice obiettivo, l’autore danese evoca la figura di Socrate, ossia il pensatore capace di ammettere la propria ignoranza, l’uomo incompreso e condannato dai suoi contemporanei. Tale evocazione gli permette di ritornare alle lontane origini del pensiero riflessivo.
Se è vero che la filosofia comincia con Socrate, costui ha quanto meno il privilegio raro di sopravvivere ben oltre la tradizione da lui fondata. Qualcosa di simile avviene con i grandi racconti dell’Antico Testamento che Kierkegaard evoca nei suoi scritti.
Il non-sapere socratico e la sofferenza del singolo sono i due leitmotiv che percorrono tutto il vastissimo pensiero di Kierkegaard, incrociandosi lì dove l’autore cerca di fondare la propria teoria della soggettività. L’angoscia, la disperazione, l’irriducibile singolarità dell’esistenza concreta, la possibilità della fede e la speranza della beatitudine eterna di fatto possono solo essere pensate in un’atmosfera segnata dall’introspezione e dall’incertezza.
Il pensiero del XX secolo ricorrerà ai medesimi concetti, cercando in essi il fondamento filosofico di quello che infine verrà denominato “esistenzialismo”. Quel che è certo è che, nel lungo percorso che va da Socrate a Kierkegaard altri pensatori avevano già preso questa direzione. La storia dell’esistenzialismo si confonde con quella del pensiero etico e religioso di tutte le epoche: le diverse scuole socratiche, il genere retorico delle “consolazioni”, le Confessioni di Sant’Agostino e gli scritti “edificanti” in ambito cristiano sono altrettanti esempi di una meditazione sull’esistenza, quale che sia il legame tra questa meditazione e la filosofia intesa come discorso accademico.
L’esistenzialismo, che grazie a Kierkegaard e ai suoi interpreti irrompe nel panorama culturale europeo degli ultimi due secoli, risponde più precisamente al desiderio di “pensare la soggettività” nella sua condizione costitutiva: non più il soggetto generale come il detentore del sapere o come padrone supremo dell’universo che egli stesso crea, ma come essere umano nella finitezza delle sue relazioni esistenziali.
Le opere di Kierkegaard vengono lette e rilette, ma la realtà umana che il nuovo esistenzialismo è capace di interrogare è sia quella del singolo posto dinanzi a Dio (esistenzialismo cristiano), sia quello dell’uomo che ha scoperto il nulla del suo stesso essere (esistenzialismo ateo). Paradossalmente, Kierkegaard può essere considerato il capostipite di entrambe le posizioni.
Per il lettore post-moderno Kierkegaard è il filosofo della riscrittura. E’ questa la chiave che ci permette di comprendere con occhi nuovi sia il suo rapporto con la fede cristiana sia la sua teoria della soggettività.
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