Cultura

Rinascimento nell’ambiente aragonese-napoletano e romeno con il castello delle Diete di Transilvania

Napoli, 6 Giugno – Nell’ipotetico triangolo ambientale con ai vertici Beatrice d’Aragona, il padre re di Napoli ed il genero, Mattia Corvino principe di Transilvania e re d’Ungheria, sta non poco delle vicende rinascimentali di un pezzo d’Europa. Durante la stesura del mio recente saggio “Canale di Pace”, stimolato anche dall’aver dovuto insegnare, oltre che le Scienze Naturali, pure Cultura e Civiltà Italia in Transilvania, ho aperto meglio gli occhi sull’arte, che risentiva spesso dell’influsso artistico rinascimentale italiano. Ma quanto dura il Rinascimento, periodo rigoglioso di tutte le arti? Perché il Rinascimento mise a centro l’uomo? Non scordiamo che apparteniamo alla specie biologica Homo sapiens, come ci precisò a fine 1700 il padre della classificazione binomiale e Naturalista svedese C. Linneo? Il Rinascimento, iniziato nel XV sec. è durato oltre 2 secoli, fu un periodo artistico, letterario, scientifico e filosofico di grande sviluppo del cittadino con i suoi diritti universali. Il termine Rinascimento  è del 1800, ma fa riferimento al concetto, già espresso dal trattatista del 1500 Giorgio Vasari, di “rinascita delle arti”, rifiorite dopo la decadenza culturale del Medioevo. Il Rinascimento esordì nel 1401 (anno del concorso per la seconda porta del Battistero di Firenze) e si concluse nel 1595 (quando il pittore Caravaggio si trasferì a Roma). È diviso in primo Rinascimento (ossia il Quattrocento) e secondo Rinascimento (che coincide con il Cinquecento), chiamato anche Rinascimento maturo. Sulle ceneri plurimillenarie di Roma d’Occidente e d’Oriente nasce l’ambiente artistico, letterario ed ingegneristico del Rinascimento. Quasi a dimostrazione di ciò sta la ricerca dell’Uomo perfetto. Alberti e Piero della Francesca affrontarono anche la delicata questione delle proporzioni. Durante l’età classica, gli artisti avevano applicato alla scultura e all’architettura proporzioni che prevedevano la scelta di precisi rapporti matematici. Essi tentarono di riproporle, allo scopo di ricreare l’immagine dell’uomo perfetto e di costruire edifici armoniosi. Il modello dei pittori e degli scultori rinascimentali fu il cosiddetto “uomo vitruviano”. Vitruvio, architetto romano del I secolo a. C., nel suo trattato De Architettura aveva affermato che l’uomo perfetto può essere contenuto, in piedi e con le braccia aperte dentro un cerchio ed un quadrato. Nel 1490, il pittore Leonardo da Vinci ne propose una famosa interpretazione grafica. Aspetti rinascimentali lasciarono il segno nel bagaglio culturale dei giovani liceali di Deva-Hunedoara e dintorni dove svolsi servizio.

Nel periodo del Rinascimento riaffiora la capacità dell’Uomo di scrutare oltre la cappa dominante culturale del proprio tempo medievale, spesso oscurantista. Riesce così a riappropriarsi della visione precristiana precedente all’imperatore romano Costantino. Riprende le arti classiche e le adatta ponendo l’Uomo al centro e non più le divinità politeiste romane e greche. Fa, infine, la mediazione di raffigurare non pochi santi, angeli e madonne che onorano il monoteismo con Cristo, figlio del Dio. Cristo divenne semi divino e semiuomo come in altre religioni e miti del passato. Promise il paradiso “dantesco” a chi perseguiva le virtù cattoliche e puniva, con somma giustizia, chi non perseguiva i precetti e le virtù cattoliche.  Nei primi mesi del 2004, quando iniziai ad insegnare a liceo “Transilvania” di Deva, in Romania, per il Maeci (Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale) un vetusto collega romeno, G. Hasa, autore di molti saggi di epica storica dei Daci, mi appellava “spion al papei de la Roma”! (Spione del papa di Roma). Molti dei miei colleghi romeni a Deva/Hunedoara, sono raffigurati nella foto che segue.

Ai colleghi liceali, Sintoma, Sorin, Heredea, Pitar, ecc. chiesi di questo strano modo di rapportarsi a me di G. Hasa e mi spiegarono che l’interlocutore si rifaceva ad un fatto storico del XV sec. accaduto a 19 Km da noi, nel castello principesco del nobile Mattia Corvino. Là, nel castello di Hunedoara, era giunto, inviato dal papa per preparare una crociata, Giovanni da Capestrano, uomo colto e plurilinguista, che abitava in una celletta sommitale dell’orrido castello dei nobili magiari e dunque cattolici Corvino. In una apposita cappella, oggi ammirata dai molti turisti che visitano il più grande castello gotico romeno, il francescano, spia del papa, celebrava la messa per la famiglia dei Corvino, castellani nobili cattolici e magiari imparentati con il re di Napoli d’Aragona.  Si chiamava Giovanni da Capestrano (Capestrano, Italia 1386 Croazia 1456) noto religioso dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti. Figlio di un barone tedesco e di una dama abruzzese, fu un sacerdote del quale si ricorda l’intensa attività evangelizzatrice nella prima metà del XV sec. Nel 1456 fu incaricato dal Papa, insieme ad alcuni altri frati, di predicare la Crociata contro gli invasori ottomani. Percorrendo l’Europa orientale, il Capestrano riuscì a raccogliere decine di migliaia di volontari, alla cui testa partecipò, con Giovanni Hunyadi all’assedio di Belgrado. Egli incitò i suoi uomini all’assalto decisivo con le parole di san Paolo: «Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento». Continuò a lottare per mesi ma il 23 ottobre egli morì a Ilok, in Slavonia, oggi Croazia orientale. . Nel 1454-55 Hunyadi imprigionò il giovane e poi famoso Vampiro, Vlad III, per un anno a Hunedoara nel castello, che è il più grande castello gotico dell’attuale Romania, dove si svolgono concerti, spettacoli e si creano filmati. Una volta ho assistito con l’artista del teatro di Deva, Isabella, nipote del mio collega Grigor Hasa, ad un concerto nel salone delle Diete di Transilvania. Prima vi ero andato con alcuni colleghi romeni e italiani ed appreso anche un po’ di leggendario o mitico: a mezzanotte Dracula si trasforma in corvo nero (simbolo dei nobili Corvino) e scende dal camino della celletta del monaco, che spiava i nobili locali per riferire poi al Papa. Nel castello si narra anche che il pozzo dell’acqua fu fatto scavare da prigionieri turchi, di Mattia Corvino, poi da questi uccisi senza mantenere la promessa di liberarli se avessero trovato l’acqua. La maledizione dei prigionieri uccisi fu da loro scritta sul muro del pozzo, che tutti i turisti leggono. Analoga leggenda la raccontano alla fortezza medievale, ora museata per i turisti, vicino a Brasov. Il castello di Hunedoara però merita di essere inserito tra gli itinerari turistici draculiani perché vi dimorò per un anno il giovane e futuro principe Vlad III. Vlad III morì oppure fu imprigionato dai turchi e liberato poi dopo aver pagato il suo riscatto dalla ricca figlia Maria? Sulla Romania con il mito di Dracula ho pubblicato un saggio con leolibri.it. La storiografia del recente passato accreditava ‘ipotesi che Vlad III  morì nel 1476, oppure nel mese di dicembre 1478 e inizio 1949. La più recente storiografia sostiene l’ipotesi che Vlad II fu imprigionato dai turchi, che lo riconobbero in battaglia, e successivamente la figlia Maria, adottata dalla potente famiglia del despota serbo-albanese Scanderberg –la adottò la sorella della moglie e la condusse dagli Aragonesi a Napoli- e si maritò a Napoli con il conte G. A. Ferrillo). La prima ipotesi sostiene che nella battaglia contro Basarab III nel tentativo di spodestarlo dalla Valacchia, probabilmente fu proprio il Voivoda Basarab III ad uccidere Vlad III, pare con una sciabolata che gli recise il capo. Vlad III fu poi sepolto nel monastero di Snagov, isola fluviale a 45 km a nord di Bucarest, dove Ceausescu aveva intenzione di fuggire prima dell’arresto ed uccisione dopo la rivolta popolare de 1989. I resti mortali di Dracula non verranno mai trovati, anzi al suo posto pare che fu trovato il capo reciso di un cavallo. Da qui nasce la non poca storiografia inerente le spoglie mortali di Dracula e un filone recente, ben documentato, ci porta a Napoli dove a soli sette anni era andata la figlia Maria. Questa, di cognome Balsa, cognome impostole dai genitori adottivi, nipote della moglie del despota cattolico dell’ordine del Dragone Scanderberg, prese marito in Giacomo Alfonso Ferillo, conte con feudo lucano e sontuosa casa e mecenate della chiesa di Santa Maria la Nova a Napoli. Il corpo del principe Vlad III detto Dracula è nella tomba dell’illustre famiglia Ferillo, parenti del re di Napoli Alfonso d’Aragona, accanto al re Corradino. Il 20/11/2019 scrissi un articolo su questo media dedicato al mito di Dracula e precisai che le leggende e le favole affondano le radici nella lontana preistoria e protostoria dell’Homo sapiens. Oggi come allora sono un mondo magico e irrazionale. Com’ è magico il mondo non solo dei bambini, e della fantasia anche degli adulti, dove donne, uomini, piante, animali parlano, fate e maghi, gnomi e funghi, il Sole e la Luna, pentole magiche, tutti eventi prodigiosi, che spesso vanno a finire nell’orrido e nel draculiano.

Dunque tra gli Aragonesi e il loro ambiente napoletano e la Romania c’è molto da approfondire per capire meglio sia il primo che il secondo vasto ambiente con le loro arti rinascimentali. Durante le Diete di Transilvania che si tenevano nell’ampio salone del castello di Hunedoara, tramite una finestrella, il sacrato cattolico apostolico romano che poi divenne santo (1690), riusciva a vedere ed udire le discussioni e i deliberati delle Diete, e, tramite piccioni viaggiatori, informava il Vaticano a Roma. Prima di entrare dal ponte levatoio nel castello di Hunedoara c’è una cappellina esterna con dentro la statuetta di Giovanni da Capestrano. Rimando il lettore al libro che tratta della storia che si dipana tra l’Italia e l’Europa a partire dalla fine del Quattrocento sino al 1690 analizzando i più importanti aspetti di “geografia iconografica” legati alle immagini del predicatore osservante Giovanni da Capestrano (1386-1456).

Punto focale di questa indagine è stato lo studio comparato della nascita di due interpretazioni iconologiche parallele, di cui Luca Pezzuto ha ripercorso in dettaglio le origini e la diffusione, riservando particolare attenzione all’utilizzo propagandistico delle effigi del beato in Abruzzo.

 

Il volume, che mantiene il carattere di “monografia” per l’ampiezza del lavoro condotto in prima persona dall’autore, si presenta arricchito da un corollario di interventi di altri studiosi, allo scopo di costituire uno strumento di ricerca realmente utile per un argomento mai trattato esaustivamente in precedenza. Mario Scudu gli ha dedicato il libro: ”San Giovanni da Capestrano: Apostolo dell’Europa Unita” e Martino Garrati, giurista di Lodi, gli dedicò il trattato De canonizatione sanctorum (1445-1448) sulla procedura d’indagine per la canonizzazione, il primo del diritto medievale su questo tema. Invece il principe del castello di Hunedoara, Giovanni Hunyadi, durante la vita ebbe tanta gloria, che spinsero i suoi successori, primo fra tutti il figlio, a ripulire la memoria del grande cavaliere dal marchio infamante dell'”arrivista”. Già nella seconda metà del XV secolo fiorirono così colorite leggende che cercarono di inquadrare Vajk, padre di Giovanni, quale discendente decaduto di antiche casate (lo si volle discendente della Gens romana dei Corvini o degli Unni). Cronisti al servizio di Mattia Corvino arrivarono a presentare Giovanni  quale figlio illegittimo dell’imperatore Sigismondo e di Erzsébet Morzsinay. Fin da giovane, Hunyadi, detto Cavaliere Bianco, si schierò al fianco di Sigismondo e poi di altri potenti fino ad avere da questi cariche principesche: protettore del Banato, principe (voivoda) di Transilvania, ecc.. Nel 1440 il Cavaliere Bianco ottenne una prima significativa vittoria contro i turchi in Bosnia. Nel 1441 gli Ottomani scacciarono dalla Serbia Hunyadi e gli altri combattenti cristiani. Nel 1442, presso Nagyszeben, il Cavaliere Bianco sconfisse un esercito ottomano in notevole vantaggio numerico. Poco dopo attaccò la Valacchia, ripulendola dai turchi e spodestando il voivoda Vlad II Dracul, alleato del sultano, per sostituirlo con il filo-ungherese Basarab II di Valacchia. Una terza armata turca, nel 1443, venne sbaragliata da Hunyadi presso le Porte di ferro. Il sultano Maometto II una volta conquistata Costantinopoli (1453), rivolse la sua attenzione verso l’Ungheria attraverso la conquista di Belgrado la cui imponente fortezza precludeva l’accesso al cuore dell’Europa Centrale. Belgrado venne soccorsa da Hunyadi alla fine del 1455. A proprie spese, Giovanni armò e rifocillò la città, lasciandovi poi una guarnigione al comando del fratellastro Mihály e di suo figlio László. Assoldò una nuova armata ed armò una flotta di duecento navi, mentre la fiera predicazione del frate Giovanni da Capestrano, radunava intorno a lui volontari crociati provenienti dal basso volgo, armati di falci e forconi. Il 14 luglio 1456 la flotta di Hunyadi distrusse le navi ottomane. Il 21 luglio le forze al comando di Szilágyi respinsero l’assalto dell’armata turca di Rumelia, permettendo ad Hunyadi di muovere un assalto al campo nemico. Dopo un breve quanto sanguinario scontro, il sultano fu costretto alla fuga, lasciando Giovanni Hunyadi padrone del campo.  L’11 agosto dello stesso anno, Hunyadi, colpito dalla peste diffusasi nel suo accampamento, si spense. Venne sepolto nella cattedrale cattolica di Gyulafehèrvàr, in Transilvania.  Al potere gli segui il figlio Mattia non Hunyadi ma Corvino perché questo termine gli fu attribuito dal biografo italiano Antonio Bonfini, che affermava che la famiglia Hunyadi (sul cui stemma era ritratto un corvo) discendeva dalla famiglia romana dei Corvini. Mattia Corvino, detto Mattia il giusto (in ungherese Hunyadi Mátyás, nacque a Cluj Napoca nel 1443 e morì a Vienna nel 1490. Fu re d’Ungheria dal 1458 al 1490.  Mattia apparteneva ad una casata molto ricca e alla morte del re Ladislao V, avvenuta nel 1458 forse per avvelenamento, il giovane Mattia fu eletto re d’Ungheria con l’aiuto del suo zio M. Szilàgyi. Fece dell’Ungheria un potente stato, dove, con la moglie Beatrice d’Aragona, introdusse la cultura rinascimentale italiana. Questo è dovuto al fatto che il nobile fu iniziato dai Filomati, nella città di Lucca, al neoplatonismo e ai culti misterici ed ebbe modo di frequentare lo spirito culturale del tempo. Intorno al 1460 la pittura figurativa napoletana mostra i primi aggiornamenti sul linguaggio prospettico fondato sul nesso forma-luce-colore di Piero della Francesca a cui aderisce il Maestro del San Giovanni da Capestrano nel Sant’Antonio della chiesa napoletana di santa Maria alle Croci situata a nord di via Foria vicino all’Orto Botanico, frequentati da me anni fa. Nel XIV sec., quando i re discendenti dalla dinastia napoletana degli Angioini sedevano sul trono ungherese, l’influenza italiana si diffuse in Ungheria e, di conseguenza, in Transilvania. Il bel sigillo di Stefano, Principe di Transilvania, figlio più giovane del re Carlo Roberto fu fatto sotto ispirazione italiana. Nella stessa epoca capitò in Transilvania (come regalo d’un Angioino ungherese) lo stupendo calice di Vizakna, capolavoro dell’arte senese. La corrente dello stile italiano del trecento influì fortemente sulla pittura a fresco in Transilvania. Gli affreschi del santuario della chiesa di Magyar-fenes seguono i tipi e le composizioni dell’arte italiana; la Crocifissione fu dipinta da una pittura trecentesca, la copia della quale, eseguita nel XV sec. si trova nello Statuto dei pistori a Padova (Padova, Museo Civico), mentre sull’„Imago pietatis“ troviamo ripetuto il tipo iconografico tanto frequente nella pittura italiana. La circostanza che questi affreschi furono trovati nelle vicinanze di Kolozsvár e l’epoca a cui appartengono, cioè la metà del XIV sec., ci inducono a cercare il loro maestro nella persona del pittore Niccolò di Kolozsvár, padre dei famosi scultori Martino e Giorgio. Quest’ipotesi viene confermata dalle caratteristiche dell’af-fresco, dall’avviamento italiano che si osserva ancora in maggior grado nell’attività dei suoi figli scultori, e principalmente dai tipi di visi delicati, col naso lungo e sottile, colle sopracciglia inusitatamente incurvate in arco concavo che si possono osservare anche sul San Giorgio di Praga. Anche la statua di San Giorgio a Praga, capolavoro di fama mondiale degli scultori Martino e Giorgio di Kolozsvár (1373) si ricollega strettamente alla corrente del proto-rinascimento italiano. La costruzione di questa statua ardita, la sua disposizione nello spazio ed i suoi dettagli realistici non si possono spiegare se non coll’aiuto dell’influenza italiana. Quanto lo stile del San Giorgio si presenta strano ed incomprensibile nell’ambiente tedesco-boemo di Praga, fra i monumenti dell’arte nordica del XIV sec., tanto più diventa comprensibile e naturale se lo confrontiamo coll’arte meridionale, coll’arte italiana contemporanea. L’arte italiana del medioevo che non si staccava mai così tanto dalla realtà come, invece, l’arte nordica, già in precedenza alla statua di San Giorgio cercava il modo di rappresentare in forma realistica i motivi arditi e movimentati, come per esempio un cavallo impennato, tanto nella pittura, come nella scultura. Nelle miniature napoletane e senesi, nella Bibbia Angioina di Malines, nel Codice di San Giorgio al Vaticano, come anche nel quadro della Collezione Lichtenstein a Vienna appaiono tali rappresentazioni di San Giorgio che possono essere considerate come precedenti preparativi alla composizione della statua di Praga. Non soltanto nella pittura, ma anche nella scultura italiana troviamo tali tendenze. Gli scultori,principalmente i toscani, già dalla fine del secolo XII s’occupavano di questo problema (il bassorilievo della fonte battesimale di San Frediano a Lucca), poi al principio del XIV sec. cominciavano a rappresentare cavalli impennati,animali volti da un lato, modellati nello spazio, dapprima sui rilievi (come sui rilievi dei pulpiti delle cattedrali di Siena e di Pisa e del portone principale del duomo di Orvieto), ma più tardi, verso la metà del secolo anche in grandi statue di bronzo a tutto tondo. Tali sono per esempio i simboli degli Evange-listi del Duomo di Orvieto, principalmente il leone di San Marco. Nella pittura di Transilvania anche nella seconda metà del secolo XIV si manifesta ripetutamente l’influenza italiana. Nel secolo XV sotto la protezione di Filippo Scolari, conte di Temes, poi coll’appoggio del reggente Giovanni Hunyadi, molti italiani si stabilirono in Transilvania. Le zecche di Szeben, Kolozsvár e Nagybánya per tempo più o meno lungo vennero dirette ed amministrate da italiani. Anche alla residenza vescovile di Várad, dove per lungo tempo vescovi dalmati ed italiani governarono la diocesi, si trovavano molti italiani tanto alla corte vescovile e nel capitolo, come anche fra gli abitanti della città stessa. A loro volta i transilvani frequentavano le città italiane in occasione di legazioni e pellegrinaggi, ed alle famose università italiane molti giovani transilvani facevano i loro studi. Le relazioni sempre più strette fra l’Italia e l’Ungheria con la Transilvania, preparavano la via per la diffusione del Rinascimento. Al medesimo tempo anche nell’arte locale, e principalmente nell’architettura gotica ungherese si manifestava l’inclinazione ad accogliere il rinascimento. Il gotico transilvano, almeno le opere ungheresi, evitano i trafori esage-rati dei muri, le torrette e le decorazioni fragili e inquiete. Costruzione pura,chiara e massiccia, superficie grandi, appena traforate, semplicità sono le ca-ratteristiche delle chiese transilvane. A quest’ambiente già preparato, a questo spirito affine, il rinascimento italiano poteva adattarsi senza difficoltà. Cosi avvenne, che le forme nuove, sempre in stretta relazione colle tradizioni indigene, in un tempo relativamente breve conquistarono l’arte transilvana e dalla fusione degli elementi nuovi ed antichi potè svilupparsi un proprio stile locale del rinascimento.

La simpatia dei Mecenati ungheresi presto si rivolse all’arte italiana del rinascimento. Fra i primi battistrada della cultura italiana troviamo Giovanni Hunyadi, reggente del regno, voivoda di Transilvania e Giovanni Vitéz, dotto vescovo di Várad. Presso la sede vescovile di Gyulafehérvár il rappresentante più importante della nuova generazione era Francesco Várday, educato alle università di Padova, Bologna e Roma, e che aveva passato anche lungo tempo nei centri del rinascimento ungherese, a Buda ed a Vác. Come vescovo di Transilvania, fece ricostruire il palazzo vescovile di Gyulafehérvár e vi si stabilì con lusso artistico e con comodità degna d’uno scienziato italiano. Nel suo studio troviamo una biblioteca considerevole, consistente di 101 volumi, lampade italiane, candelabri di bronzo, lavori usciti certamente dalle famose fonderie padovane, poi arazzi ornati di figure ovvero del suo stemma gentilizio,tappeti, lavori d’oreficeria italiana, impronte di gemme antiche, e perfino un bel numero di pitture italiane. Egli era un mecenate zelante anche della sua cattedrale e nel suo testamento provvide generosamente per la continuazione della costruzione e per l’abbellimento dell’edificio; anzi estese la sua generosità anche ad altre chiese. Dalle lunghe pagine del suo testamento si delinea la figura caratteristica di uno splendido mecenate. Il rinascimento fece conquiste considerevoli anche nelle file dei secolari. Fra i mecenati del nuovo stile troviamo il vice-voivoda Leonardo Barlabássy, amico dell’arcidiacono Giovanni Lázói, il tesoriere Stefano Thelegdi, il capitano della fortezza di Jajca, Stefano Désházy che più tardi abbracciò la carriera ecclesiastica, ed il giudice supremo della curia Giovanni Drágffy, parente del vescovo Várday. E non soltanto i magnati e gli alti dignitari che avevano relazoni alla corte reale ed alle residenze vescovili, ma anche la nobiltà provinciale e i cittadini proteggevano l’arte del rinascimento. Per esempio Antonio Veres e Tommaso Novai, possidenti di Keszü, fecero fare una bella porta,scolpita nello stile del rinascimento, per la chiesa del luogo. Bernardus Piktor fece edificare nel nuovo stile la sua casa a Kolozsvár,Niccolò Serény, guidice di Dés, fece elevare i bastioni della chiesa locale, Martino Makray e Gregorius Litteratus fecero dipingere degli affreschi nella chiesa di Vizakna. Dal secondo matrimonio, con Beatrice d’Aragona, celebrato nel 1475, non nacquero figli: Mattia Corvino pensò allora di affidare il trono al figlio illegittimo Giovanni Corvino contro il volere della moglie. La morte improvvisa del re lasciò la corte senza indicazioni precise e la situazione venne facilmente risolta dalla moglie che indicò come successore Ladislao Jagellone con il quale contrasse un matrimonio segreto. Dopo l’ascesa al trono però il matrimonio venne annullato per un vizio di forma e Beatrice fu costretta a rientrare a Napoli, mentre Giovanni venne nominato governatore della Bosnia. Mattia Corvino è considerato eroe nazionale ungherese, una sua statua è stata posta nel colonnato della Piazza degli Eroi a Budapest. La chiesa di Nostra Signora Assunta della Collina del Castello a Buda viene comunemente chiamata Chiesa di Mattia per il fatto che vi si sono celebrati i suoi due matrimoni. Una monumentale statua equestre del re è stata eretta nella sua città nativa nel 1902. C’è anche un suo ritratto in bronzo all’interno del castello di Buda. La sua effigie compare sulla banconota da 1.000 fiorini ungheresi.

Se l’ambiente dei nobili è stato delineato da molti storici non altrettanto è stato fatto per gli umili o sudditi. Si riporta una foto di pastori appenninici del 1924 in transumanza da Letino a Marcianise. Da poco tempo ho appreso che un figlio del principe Mattia Corvino, Stanislao, avuto fuori dei due matrimoni, fu esiliato dal padre insieme, a suoi amici che congiuravano, a Casal di Principe, nei territori del suocero Fernando I d’Aragona, re di Napoli.  Nel mio saggio “Canale di Pace”, in corso di stampa, delineo l’evoluzione del cittadino dal precedente suddito: dapprima schiavo, poi- con il Medievo- servo della gleba ed infine abitante del borgo o borghese attorno ai castelli dei nobili. Dai nobili e dai borghesi ebbero origine i cittadini, che in gran parte erano i figli delle arti liberali: commercianti, artigiani, notai, avvocati, ingegneri, professori, ecc.. Questi avevano frequentato le scuole, come e più dei nobili, e si elevarono dal popolo, generalmente analfabeta detto anche volgo composto, secondo lo scrittore Ignazio Silone, da “cafoni”. Con il Rinascimento, l’evoluzione verso il cittadino, ha avuto un notevole impulso perché è stato posto al centro l’uomo e la rinascita dell’individualità, oscurata da culture religiose e stataliste prima del XV sec.. Ciò promosse l’artista del Rinascimento, che ebbe come baricentro ambientale Firenze con la Signoria dei Medici, di cui Lorenzo fu detto  “Magnifico” perché esemplare e grande mecenate di artisti. Il mecenatismo costituì un elemento caratteristico delle nuove corti del 1400: con la promozione delle arti e il sostegno anche economico agli artisti, i signori intendevano esaltare la propria dinastia e dare lustro al proprio governo.  La frase pronunciata dal Duca di Milano, è emblematica: ”Leonardo, lavora per me che la tua opera artistica crescerà con la mia dinastia”, gli disse Ludovico il Moro prima della creazione leonardesca dell’opera nel refettorio del monastero affianco alla chiesetta di Santa Maria delle Grazie. In effetti l’”Ultima Cena” di Leonardo a Milano, datata 1495-98, è un’opera che attira visitatori sia laici che religiosi da ogni dove. Nel 1500 a Padova, invece, Leonardo dissezionava i cadaveri come pioniere della Fisiologia Umana, mentre tutte le lezioni venivano sospese per rispetto sacrale. Ancora oggi nei musei vaticani, sotto la Cattedrale di San Pietro, è proibito fotografare scheletri umani per rispetto della sacralità dell’Uomo, fratello di Cristo e figlio di Dio. L’Ambiente religioso in tutti gli ambienti planetari è stato sempre incubatore di artisti e di arte, tutti i templi e chiese sono ricche di oggetti sacri ed opere pittoriche e scultore artistiche di valore. I ministro di culto del cristianesimo, con la variante ortodossa dell’Europa dell’Est, apprezzano molto l’arte come il colto Theodor Damian che dirige, tra l’altro, a New York, la rivista romena”Lumina lina” (Luce sottile). Nell’ambiente culturale del Rinascimento vissero ed operarono grandi artisti italiani e stranieri. In Italia erano figli e artefici del Rinascimento: Alberti, Bellini, Botticelli, Brunelleschi, Caravaggio, Donatello, Giotto, Leonardo, Mantegna, Masaccio, Michelangelo, Pier della Francesca, Raffaello, Tiziano, ecc.. In Romania si ricorda, tra i tanti artisti, un nipote del Rinascimento, Nicolae Grigorescu, che immortalò la sua arte nei monasteri della Bucovina fatti edificare nel 1400 da Stefan III il Grande ( in romeno Stefan Cel Mare). Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente del 476 d. C. si andarono formando intorno ai castelli e fortezze medievali i borghi, abitati dai borghesi, alcuni vivevano delle arti liberali (medici, notai, ingegneri, artigiani, commercianti, ecc.). Pian piano, soprattutto in cima a delle colline, per motivi di sicurezza, si formaroni i Comuni con una certa autonomia dall’imperatore di turno come Federico II, ecc.. La Governance comunale mutò lentamente in Signorie. Queste, come in precedenza i Comuni, erano, più o meno servili al papato (Guelfi) o all’imperatore (Ghibellini). Roma Caput Mundi, invece, assicurava dentro i vasti confini imperiali un’unica amministrazione della res publica e una buona sicurezza per il buon controllo territoriale. Gli schiavi erano in gran parte prigionieri di guerra, mentre nel Medievo erano i servi della gleba, l’ultimo ceto sociale dopo i nobili vassalli, valvassini a valvassori. Tra il XIV e il XV sec.. In Italia prevalsero cinque Stati di grande importanza: Firenze (che formalmente mantenne gli ordinamenti repubblicani e comunali), il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia (governata da una oligarchia mercantile), lo Stato della Chiesa (con Roma sede della Curia papale) e il regno di Napoli a Sud: governato dai Borboni, nobili spagnoli. A Firenze, nel 1434, il potere si concentrò nelle mani della famiglia Medici. Cosimo dei Medici, detto il Vecchio, ricchissimo banchiere e commerciante, divenne, di fatto, il padrone incontrastato della città. Anche negli altri piccoli Stati italiani, come il Ducato di Savoia, la Repubblica di Genova, il Ducato di Urbino, le Signorie di Mantova, Ferrara, Modena e Reggio, le sorti si legarono ai nomi di alcune grandi famiglie. In realtà si ripeteva, sia pure modificato ed adattato al nuovo ambiente economico e sociale, aspetti dell’antica Roma con la classe dirigente dei Consoli, distinti in populares e optimates o aristocratici. In particolare nell’ultimo sec. dell’antica Roma repubblicana, anche il popolo romano si divise tra due tendenze ideali rappresentate dai loro consoli che eleggevano (solo se cittadini romani, senza il voto dei poveri, degli ignoranti e delle donne): populares e optimates. Studiando l’ambiente sociale e politico attuale dell’Europa e non solo, sembra quasi di scorgere, tra le ceneri storiche, ancora l’ambiente sociale e politico di allora. I circa 200 stati attuali nel mondo sono governati da  Monarchie costituzionali (come la Gran Bretagna) e soprattutto da Repubbliche parlamentari (come l’Italia e la Germania) e presidenziali come gli Usa, la Francia e similmente alla Francia anche la Romania. In tutte queste forme di governo della res publica vi sono i partiti che, per i loro programmi elettorali, si rifanno, in gran parte, ai Populares o agli Optimates. In futuro, in un unico stato globale democratico federato degli attuali stati come saranno le tendenze politiche, artistiche, religiose, economiche, ecc.? Nel mio saggio “Canale di Pace”, mi limito solo a non scrivere l’irrealizzabile, ma prefiguro, in un futuro prossimo, il primato del cittadino (colto, tollerante e dominante più saperi sia delle scienze naturali che umane), che non sia più suddito della burocrazia che ogni stato ha. Il cittadino globale applicherà la scienza con il principio di precauzione e con la responsabilità di specie, ma è aperto all’universo da scoprire meglio con la lanterna, anche di lumina lina come si dice in romeno. Egli non ubbidirà ma condividerà le scelte della Governance, federale e locale, in una nuovo ambiente trasparente nelle decisioni collettive non sul e del popolo amorfo e fatto di novelli sudditi o ex ”cafoni” come li definiva lo scrittore di Sulmona (CH), I. Silone, conterraneo di Ovidio e Giovanni da Capestrano, entrambi emblematici conoscitori dell’Italia e della Romania.

 

 

 

 

Giuseppe Pace (già prof. del Liceo ”Transilvania” di Deva ed esperto Internazionale di Ecologia Umana)

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