Napoli, 17 Marzo – «Scrivere ricuciva la vita perfetta e felice che credevo di avere prima della malattia con quella dopo». La penna diventa uno strumento di pace in un animo tormentato dal “perché proprio a me”, per Silvia Ferretti che, all’età di quarant’anni, si vede diagnosticato il morbo di Parkinson. Prima la negazione della malattia, lo sconforto, poi, la rinascita. Grazie alla scrittura che l’ha aiutata a vedere le cose con gli occhi del cuore e a credere che tutto quello che accade è un dono e va verso il bene, anche se a volte in un modo così misterioso che si fatica a capire. Silvia Ferretti, insegnante di Reggio Emilia, è l’autrice dell’opera “L’acqua è insegnata dalla sete”, pubblicata nella collana “I Diamanti della Narrativa” dell’Aletti editore. «Solo una sete profonda ci fa capire la preziosità dell’acqua – che spiega, così, il titolo tratto da una poesia di Emily Dickinson -. L’acqua senza sete non sarebbe preziosa, la sete senza acqua ci ucciderebbe».
La storia, autobiografica, è raccontata per opposti che, come pezzi, di un puzzle, scandiscono non solo la vita dell’autrice, ma tutta l’esistenza umana. Un puzzle in continua evoluzione, in cui non esiste l’incastro perfetto ma ci sarà sempre qualche pezzo mancante. «L’uomo è fatto di opposti: è capace di tanto bene e tanto male. Gli opposti creano movimento e vita. Se tutto fosse perfetto, se non ci fosse il lato oscuro in noi stessi, saremmo morti». E’ un libro potente nel suo messaggio e nella sua forza salvifica, perché riesce a ribaltare il vigore della malattia dandole voce. «Quando ho scoperto che è dentro di me da sempre, anche se solo a trent’anni ha dato i primi segnali della sua presenza, mi è venuta l’idea di farla diventare un personaggio. Un personaggio antipatico e crudele, sicuramente, ma con i suoi lati teneri. Di nuovo gli opposti. Un personaggio che, alla fine, ammetterà di essere il perdente nella battaglia con me. Alla fine ammetterà di essere la malattia che mi ha guarito».
Per raccontare la storia, in cui immagini e parole vanno di pari passo, l’autrice sceglie di usare caratteri differenti. «Mi sono ispirata a Michael Ende che, nella sua Storia Infinita, usa caratteri di colore diverso per indicare quale bambino (Sebastian o Atreiu) sta parlando. È fantastica l’idea che siano due persone diverse, pur essendo la stessa persona. Così è nella mia storia tra me e l’altro personaggio che parla». E poi, in due punti del libro, quelle pagine bianche, a significare l’assenza di parole di fronte a cose troppo grandi per noi. Un cuore paralizzato dalla paura, ma anche una pagina bianche che invita all’ascolto. Di nuovo gli opposti.
«Vorrei che la mia scrittura fosse così, capace di trovare la poesia, in ogni anfratto di vita. Capace di toccare le corde dei lettori, di far salire le lacrime agli occhi perché ci sentiamo esseri veramente umani. Vorrei invitare tutti ad abitare poeticamente il mondo». Perché per Silvia Ferretti, la poesia è capace di mettere dolcezza dove non ce n’è. Di far vedere e, al tempo stesso, nascondere. La poesia dice e non dice, in una vita che, spesso, “è insegnata dalla sofferenza”, proprio come “l’acqua è insegnata dalla sete”, ma che va vissuta perché nessuno è la sua malattia. «Io mi sento viva. Assolutamente imperfetta e il mio impaccio motorio, il mio modo goffo di camminare me lo ricordano assolutamente. Ma mi sento viva e piena di energia da donare a quelli che incontro sulla mia strada».
Federica Grisolia
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