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Cosa ci ha insegnato la Pandemia?

Napoli, 9 Febbraio – Quale sarà il mondo che verrà? Che cosa ci ha insegnato la Pandemia da Covid? Riavvolgendo il nastro del tempo, fino all’inizio della Pandemia, due lunghissimi anni che pesano nella vita di ognuno come due secoli, abbiamo continuamente recitato una convinta e a tratti entusiastica litania: “alla fine di tutto ne usciremo migliori!”.

Oggi, molte persone, lacerate profondamente nell’anima dalle conseguenze sanitarie, economiche, sociali e psicologiche del fardello pandemico, rispondono di no. Per molti è già un prezioso traguardo uscirne. Avanza sempre più la convinzione che regni sovrano un impercettibile ma soffocante senso di incertezza e fragilità che pesa come un macigno sulla vita di ognuno e sul futuro della nostra società.

L’epoca del Covid ci ha posto davanti ad una scoperta improvvisa e inaspettata: quella di essere fragili e dunque una terribile e insopportabile sensazione di aver perso il controllo e le acquisite certezze della nostra vita.

Abbiamo imparato, nonostante tanti dubbi se non addirittura la scelta di strade negazioniste, che la scienza medica, grazie ai vaccini, ha evitato moltissime morti, ma ha anche innescato un processo che mai si era visto finora, fatto di rapidità sorprendente ma pieno di imboscate e di contraddizioni contro un avversario così subdolo e ancora non del tutto noto.

Abbiamo imparato che, nonostante tutte le dichiarazioni costruttive e di buona volontà, alla pandemia mondializzata non sempre corrisponde un serio desiderio da parte degli stati nazionali di adottare strategie effettivamente comuni, persino i singoli partner europei emanano leggi e decreti in modo indipendente, sottostando agli umori più o meno palesi dell’interesse economico, che condizionano e non poco i singoli stati. Per non parlare dei cosiddetti “paesi poveri” che come al solito sono considerati gli ultimi della classe a cui riservare solo gli spiccioli.

Abbiamo imparato soprattutto che il consumismo sta forse cambiando casacca ma non cambierà il percorso già noto: il Pil è una formula magica e tecnicamente complessa dietro cui noi comuni mortali leggiamo semplicemente la tanto agognata “ripresa”, cioè la possibilità di tornare a spendere come prima, a viaggiare e a comprarsi quel poco di benessere che ci garantisce un equilibrio.

Tante cose abbiamo imparato nell’epoca del virus. Tante variegate verità che sarà difficile dimenticare a pandemia finita, anche se tutto il nostro essere si sporgerà verso il carnevale ritrovato e verso la rimozione del negativo.

Ma un dato è incontrovertibile: l’uomo è un animale sociale e nonostante le mutazioni epocali, sotto l’inarrestabile euforia digitale, vive pur sempre un nucleo pulsante che ha bisogno di compagnia, che vuole toccare l’altro con i cinque sensi, che gioisce e soffre.

In conclusione, ne usciremo migliori dalla pandemia? Come usciremo dalla depressione collettiva che molto spesso non si ha il coraggio di confessare? E soprattutto che idee ci stiamo facendo del mondo che ci aspetta?

L’espressione “ne usciremo migliori” diventa, nel profondo di noi stessi, quasi una preghiera, un mantra che per trasformarsi in realtà, necessita gioco forza di un successivo ma fondamentale passo: “dobbiamo inevitabilmente far qualcosa, per uscirne migliori”. Quel qualcosa è senza dubbio la consapevolezza di dover intraprendere un percorso virtuoso di cosciente responsabilità individuale e collettiva, affinchè sia possibile uscirne più liberi e migliori. Rendere migliore il mondo in cui viviamo significa semplicemente prendere sempre più coscienza che esso non funziona con il “pilota automatico”, assecondando l’ingenua convinzione che “tanto il progresso va comunque da sé”.

Il mondo in cui viviamo, in definitiva, si migliora se interiorizziamo il valore della condivisione sociale, un atteggiamento che dovremmo tenere anche per promuovere quel “patto tra generazioni” che richiede certo conoscenza e ricerca ma soprattutto un profondo senso di responsabilità per noi e per gli altri.

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