Napoli, 17 Aprile – Ammetto che durante la tenera età non nutrivo particolare interesse per la lettura: prendevo in mano un libro esclusivamente allorquando mi veniva assegnato dalle maestre, cosa che accadeva in particolar modo nei periodi in cui le attività didattiche erano interessate da sospensioni ope legis. Inoltre, quando taluno mi faceva dono di un libro, davo di matto!
Chi mi conosce da tempo può ben immaginare la reazione del mio compianto padre alla carenza in parola: a ragion veduta, egli esprimeva – senza, tuttavia, far la voce grossa – preoccupazione e rammarico, considerato il suo amore incondizionato per i classici della letteratura.
Ciononostante, grazie alla mia progressiva maturazione – nonché, beninteso, alle continue esortazioni del caro papà ed al fervido zelo dei miei insegnanti -, leggere non fu più un peso per me: anzi, è diventata una valvola di sfogo, un passatempo di cui non potevo (e tuttora non posso) fare a meno, indipendentemente dal genere letterario del libro che capita fra le mie mani in un determinato momento.
Questo iter, caratterizzato da una marcata discontinuità, ha avuto inizio quando avevo all’incirca sei anni e mezzo: durante una lezione d’Italiano tenuta dalla maestra di un’altra classe – frequentavo, a quell’epoca, la prima elementare, e la mia maestra era temporaneamente assente per ragioni di salute – venne letto un brano tratto dalla “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare“, capolavoro dello scrittore Cileno Luis Sepùlveda, la cui memoria intendo onorare col presente scritto.
L’opera in questione è un libro di narrativa difficilmente inquadrabile in un “sottogenere”: difatti, la sua lettura è consigliata a tutte le fasce d’età, dai primi lettori ad un pubblico più esperto. Chiaramente, più si cresce (non necessariamente sotto il profilo meramente anagrafico), più si comprendono i molteplici significati della prosa – lineare e, al contempo, dettagliata – di Sepùlveda, specie con riferimento ai capitoli finali.
Una volta appresa la notizia della triste fine dell’autore, è balzata nella mia mente la seguente frase: “vola solo chi osa farlo“, pronunziata dal gatto Zorba in risposta al poeta che si offre di aiutarlo nella missione (im)possibile di insegnare alla gabbianella Fortunata come spiccare il volo.
Di primo acchito ho pensato all’emergenza in atto e, segnatamente, al modo in cui la stessa, nel quotidiano, viene gestita dai Governi, riallacciandomi ad un’altra frase denotante la personalità del compianto prosatore, morto quest’oggi proprio a causa del Sars-CoV2: lo scrittore Partenopeo Erri De Luca – che aveva conosciuto Sepùlveda a Torino – ha ricordato che costui amava rimarcare il suo essere “prima un cittadino che uno scrittore”.
Nelle pagine dei suoi romanzi è infatti possibile toccar con mano diverse realtà, attesa la molteplicità di ambientazione che li connota: dall’Amazzonia al nativo Cile, dal Nicaragua ad Amburgo, e via discorrendo.
Solo chi osa può spiccare il volo: ciò sta a significare, in altri termini, che per uscire da questa parentesi storica decisamente infausta è d’uopo farsi venire delle idee, discuterne, cercare di metterle in pratica.
Se non si ha coraggio, cari Lettori, si precipita in un burrone; o meglio – per quel che riguarda le potenziali conseguenze di una mala gestio dell’emergenza Covid-19 – in una pluralità di burroni: intelligenti pauca (It.: a buon intenditor poche parole)!
L’enorme lavoro svolto da Sepùlveda nel corso dei suoi settant’anni sia per ognuno di noi un incentivo alla meditazione, all’elaborazione di pensieri ed idee e, non da ultimo, alla lotta continua.
Grazie infinite, Luis, per gli ideali che ci hai trasmesso. Riposa in pace!
Adriano Spagnuolo Vigorita
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