Napoli, 9 Febbraio – Cosa celebra la Giornata mondiale per la sicurezza in Rete, Safer Internet Day, istituita e promossa per il 9 febbraio dalla Commissione Europea, con il consueto motto “Together for a better Internet”. Penso che la nuova rivoluzione digitale, quarta della serie “voglio l’innovazione e non la tradizione”, va verso uno stato globale federale degli oltre 196 stati locali attuali. Nel bell’atrio che si apre con la volta scoperta al cielo, spesso nebbioso, dopo lo scalone che conduce al rettorato dell’Università di Padova, leggo, spesso e in ben evidenza in alto, il monito: ”Hic vivunt hic vigent hic
renovantur in aevum tot bellorum animae” (Qui vivono qui si rinnovano nella disperazione le anime di tante guerre). A Padova, città mia elettiva e non adottiva, Sir Herbert Butterfield, in “Le origini della scienza moderna” 1962, scrive: “Ammesso che l’onore di essere stata la sede della rivoluzione scientifica possa appartenere di diritto a un singolo luogo, tale onore dovrebbe essere riconosciuto a Padova”. L’università di Padova il prossimo anno compie 8 secoli in una città definita “culla delle arti e della scienza” da W. Schakespeare. Eppure qua si discute di paure da dipendenza da internet, i minori che ne sono succubi, ecc.. Tempo fa il dr. in Fisica del 1965, con 110 e lode, ed Alumno dell’Università di Padova, Federico Faggin, venne a parlare di tecnologia digitale e di Silicon Valley dove ha lavorato e lavora ancora nonostante si sia messo a studiare la consapevolezza o coscienza dalla meccanica quantistica. Oggi Padova sembra un po’ gli Usa, calderone d’etnie.
Faggin desidera che anche lo spirito sia messo sotto la lente d’ingrandimento della scienza e non solo dominio dei saperi umanistici come la Filosofia, le Religioni, ecc.. Da Naturalista mi trova concorde anche perché sono convinto che con un solo sapere non si studia più niente di niente come ad esempio l’Ambiente, insieme di Natura e Cultura, di cui mi occupo da decenni in Italia e all’estero. Da tempo si parla e si scrive di quarta rivoluzione industriale e si intende la crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico. È una sorta di integrazione e di somma dei progressi in intelligenza artificiale, robotica, internet delle cose, stampa 3D, ingegneria genetica, computer quantistici ed altre tecnologie del presente. È la forza collettiva che sta dietro molti prodotti e servizi che stanno rapidamente diventando indispensabili per la vita moderna. Pensa ai sistemi GPS che suggeriscono il percorso più veloce per raggiungere una destinazione, agli assistenti virtuali ad attivazione vocale come Siri di Apple, ai suggerimenti personalizzati di Netflix e alla capacità di Facebook di riconoscere il tuo volto e taggarti nella foto di un amico. Anche se la quarta rivoluzione industriale (detta anche 4IR o Industria 4.0) sta cambiando la società come mai prima d’ora, si basa su fondamenta gettate dalle prime 3 rivoluzioni industriali. L’avvento del motore a vapore nel XVIII secolo ha portato alla prima rivoluzione industriale, consentendo per la prima volta la meccanizzazione della produzione e promuovendo un cambiamento sociale spinto dall’urbanizzazione delle persone.
Nella seconda rivoluzione industriale, l’elettricità e altri progressi scientifici hanno portato alla produzione di massa. La terza rivoluzione industriale, iniziata negli anni ’50, ha visto la nascita dei computer e della tecnologia digitale. Questo ha portato alla crescente automazione della produzione e allo sconvolgimento di settori come quello bancario, dell’energia e delle comunicazioni. Klaus Schwab ha etichettato i progressi odierni come nuova rivoluzione. Egli è il fondatore e direttore esecutivo del World Economic Forum e autore di un libro intitolato La quarta rivoluzione industriale. In un articolo del 2016, ha pure scritto che “come le rivoluzioni che l’hanno preceduta, la quarta rivoluzione industriale ha il potenziale di innalzare i livelli globali di reddito e migliorare la qualità della vita per i popoli di tutto il mondo”. Ha affermato anche: “Nel futuro, le innovazioni tecnologiche porteranno anche a un miracolo sul lato dell’offerta, con benefici a lungo termine per l’efficienza e la produttività. I costi di trasporto e comunicazione caleranno, la logistica e le supply chain globali diventeranno più efficienti e il costo del commercio diminuirà; tutto questo aprirà nuovi mercati e promuoverà la crescita economica”. Non ci sono solo buone notizie, però. Schwab ha suggerito anche che la rivoluzione potrebbe portare a una maggiore disuguaglianza, “specialmente nel suo potenziale di sconvolgere i mercati del lavoro”. Inoltre, il mercato del lavoro potrebbe diventare sempre più fossilizzato sui ruoli “bassa competenza/basso stipendio” e “alta competenza/alto stipendio”, e questo potrebbe esacerbare le tensioni sociali. Secondo Schwab, “i cambiamenti sono tanto profondi che, dal punto di vista della storia dell’uomo, non c’è mai stato un periodo più promettente o potenzialmente pericoloso”. L’ombelico del mondo, fino a pochi anni fa, sia per la nascita che per la crescita della tecnologia digitale, era la Silicon Valley. Essa non ha confini, né una capitale, ma è al centro dell’attenzione di imprese e governi di tutto il mondo: la Danimarca ha addirittura istituito un’ambasciata con sede a Palo Alto, tra l’Università di Stanford e i campus di Google e Facebook. L’ambasciatore, C. Klynge, studia le nuove tecnologie e il loro impatto sulla società e la politica. L’esempio danese è stato seguito di recente da altri Paesi europei: dalla Francia alla Germania alla Slovacchia.Ma sono soprattutto le grandi imprese ad aver creato teste di ponte nella Bay Area: grossi centri di ricerca sono stati aperti dai gruppi automobilistici europei — Mercedes, Renault, Audi — interessati soprattutto (ma non solo) allo sviluppo dei sistemi di guida autonoma, mentre si moltiplicano anche i laboratori delle multinazionali alimentari come Nestlé e Unilever e di imprese di altri settori. «È qui il luogo dove è più facile mettere insieme tutti i fattori — ingegneristici, commerciali e di venture capital — dell’innovazione. Non solo nell’industria, ma anche in campo bancario e finanziario», dice A. Promutico che a San Francisco dirige l’osservatorio tecnologico di una grande banca.
Ma Atelier, la start up della quale è amministratore delegato, appartiene a un istituto francese, Bnp Paribas, non a una banca italiana. Anche il World Economico Forum di Davos si è convinto che la rivoluzione tecnologica in atto, destinata a cambiare tutto, lavoro, gestione dell’energia, servizi professionali, ma anche il modo di viaggiare e consumare, perfino l’alimentazione, parte da qui. Così ha creato a San Francisco il Centro per la Quarta Rivoluzione Industriale nel quale lavorano una settantina di scienziati ed esperti di varie discipline che cercano, come spiega il suo vicedirettore, Zvika Krieger, di trovare soluzioni ai problemi tecnici, giuridici e amministrativi posti dalle varie tecnologie e dal loro utilizzo. «L’ambizione — dice Krieger — è quella di sviluppare piattaforme con le quali affrontare le complesse questioni nate dall’uso delle tecnologie più avanzate, dal riconoscimento facciale alla blockchain, mettendole, poi, a disposizione delle imprese e delle autorità con poteri regolatori: governi, parlamenti, agenzie indipendenti». L’Italia ha la presidenza del G-20, ma sembra essere l’unico Paese del G-7 a non far parte del gruppo di 27 nazioni che ha fatto nascere questo centro, anche se il Porto di Genova, collabora per sviluppare l’uso della blockchain nella distribuzione delle merci. Eppure l’Italia è uno dei 3 grandi dell’Unione Europea e i suoi scienziati, come F. Faggin, dicono che come impostano i problemi gli italiani su scala mondiale, non sono da meno ad altri anzi sono più armoniosi e completi i risultati progettuali. Da poco tempo si discute col Vaticano di alcuni aspetti della cosiddetta precision medicine, le cure mediche personalizzate ». In effetti l’Italia, presente sulla West Coast con alcune start up e con manager che hanno ruoli di punta nei giganti Usa (da Luca Maestri di Apple a Paolo Bergamo di Salesforce), non ha investito come Paese nell’hub tecnologico californiano. Si danno un gran fa dare il console a San Francisco, Lorenzo Ortona, e Alberto Acito che, nell’ambito dell’Ice, promuove gli investimenti diretti americani nel nostro Paese: un ruolo creato dal governo italiano due anni fa. Proprio in questi giorni sbarcano in Italia, anche grazie al loro lavoro, due società americane: Nanoracks, azienda texana delle tecnologie spaziali che apre un centro di sviluppo a Torino, e RStor, una compagnia di cloud computing della Silicon Valley, partecipata da Cisco, che inaugura un centro di ricerche a Genova con una ventina di ingegneri: punta ai mercati Ue e ad attingere a nuovi serbatoi di capitale umano, visto che ormai in California matematici e computer scientist sono quasi introvabili e, comunque, costosissimi. Ma l’osservatorio tecnologico italiano che doveva nascere a San Francisco col contributo della Cdp non ha mai visto la luce, mentre tra i gruppi industriali, solo l’Enel sta facendo qualcosa: un innovation hub gestito da Milan Poidl, un manager austriaco che in precedenza gestiva le attività elettriche in Perù che Enel ha ereditato da Endesa. Poidl, nel suo lavoro di ricerca di soluzioni tecnologiche per i problemi che gli vengono sottoposti dalle varie unità operative del gruppo energetico, si appoggia a Mind The Bridge, la società di Marco Marinucci, pioniere della promozione delle start up italiane nella Bay Area. Ora l’Enel ha aperto un hub tecnologico anche sulla costa atlantica, a Boston. Positivo, ma poco rispetto a quello che investono gli altri Paesi europei tanto per trarre vantaggio dalle tecnologie della Silicon Valley quanto per attrarre investimenti americani. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (acronimo TIC o ICT dall’inglese Information and Communications Technology), rappresentano l’insieme delle metodologie protagoniste della trasmissione, ricezione ed elaborazione di contenuti digitali ed input informatici (tecnologie digitali comprese). Costituiscono le tecnologie dell’informazione e della comunicazione tutti i settori di Business che si occupano di progettare e sviluppare tecnicamente la comunicazione digitale. A Padova, nel 1678, si laureò la prima donna al mondo, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. Era la quinta di sette figli del nobile Giovanni Battista Cornaro Piscopia con una donna di umili origini. Giovanni è un uomo colto, influente, progressista, dopo aver convissuto per anni si sposa con Zanetta Boni, la sua compagna di una vita, nonostante sia una popolana, fa riconoscere tutti i figli fin dalla nascita e spende oltre 100 mila ducati per farli elevare a patrizi. È un mecenate e a casa sua si ritrovano scienziati, letterati, eruditi. Elena sogna di laurearsi in teologia, la materia delle tante che domina in cui si identifica di più, forse proprio per la sua fede cattolica, e con il padre e la sua schiera di sostenitori al fianco si fa avanti.Le risponde il vescovo di Padova, il cardinale Gregorio Barbarigo, consigliere del papa Innocenzo XI, cancelliere dell’Università col potere di autorizzare, o negare, una laurea e il cardinale con sulla testa il suo copricapo rosso pronuncia queste esatte parole:“E’ uno sproposito dottorar una donna, ci renderebbe ridicoli a tutto il mondo.” Elena non molla, suo padre neppure e ad Elena verrà permesso di sostenere la sua dissertazione e potrà laurearsi. Non in teologia, come avrebbe voluto, ma in filosofia. Non le sarà concesso invece di insegnare. Perché donna, naturalmente.
Il 25 giugno del 1678, a 32 anni, dopo aver discusso due tesi su Aristotele, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia riceve nelle sue mani, come i suoi pari uomini il libro, simbolo della dottrina, l’anello, che rappresenta le nozze con la scienza, il manto di ermellino, che indica la dignità dottorale e la corono d’alloro, il segno del trionfo. Sul verbale di discussione, in latino, viene proclamata “magistra (al femminile) et doctrix philosophiae.” La grandezza, la libertà, la caparbietà di Elena, purtroppo, non bastarono a spazzare via gli stereotipi sulle donne e la loro formazione. Il mondo era ancora troppo indietro, troppo arretrato, troppo stupido. Dovettero passare quasi 100 anni per vedere un’altra donna laureata in Italia: Laura Bassi, una fisica di Bologna e quasi 3 secoli dopo da Elena, nel 1963 si laurea in fisica nucleare un’altra donna a Padova. Solo pochi mesi dopo quello stesso giugno del 1678 Carla Gabriella Patin in cui Elena aveva conquistato il suo titolo, un’altra donna, tentò di ottenere allo stesso modo la laurea in filosofia, ma fu respinta. In quell’occasione anche il padre di Elena si oppose pubblicamente, temendo di perdere l’onore e il prestigio ottenuto con il primato della figlia. L’onore e il prestigio, forse le uniche debolezze di un uomo altrimenti illuminato, per la sua epoca. Elena non ha cambiato il mondo allora, forse non ci ha neanche mai pensato: ha lottato e studiato per sé stessa e per nessun altro, ma nel farlo è divenuta comunque un simbolo immortale, un esempio, un’ispirazione. Le sono state dedicate strade, biblioteche, scuole, piazze, un doodle di Google, e forse l’omaggio più bello è stato dare il suo nome a un cratere dal diametro di 26 chilometri su Venere. Elena è arrivata persino su un altro mondo. In molti palazzi patavini ebbero origine non pochi cittadini anche figli delle arti liberali non solo i nobili e possidenti. Anche i castelli medievali sono stati luoghi privilegiati per promuovere i cittadini da precedenti sudditi come a Deva in Romania sotto al castello del 1250, sommitale di un vulcano spento a forma di tronco di cono.
La scuola compresa l’università è il luogo dove il suddito può divenire cittadino. A Simeria vicino a Deva c’è un’azienda di marmi mondiale, la Marmosim, che ha cittadini che lavorano in modo digitale come lo è il logo stesso. Anche nella mia ex sede liceale il computer era molto usato dai professori e studenti, a ben ragione gli hanno modificato il nome da Colegiul Tecnic “Transilvania” a Liceo Tecnologico “Transilvania”, che ha anche una sezione di lingua italiana oltre a sezioni d’inglese e francese. Non a caso il liceo veniva diretto da una chimica, Maria Andrei, quando vi insegnavo e poi da un fisico, Demeter Sorin Marin. Nel 2006 venne a tenere una interessante lezione, in lingua inlese, sulla Democrazia il Console degli Usa a Cluj Napoca. Lo cito nel mio saggio in corso di stampa: ”Canale di Pace. Covid19, chi parla di pace vuole uno stato globale federale”. In questo saggio ambientale delineo l’evoluzione del suddito a cittadino facendo leva sulla scienza multidisciplinare, interdisciplinare e transidisciplinare dell’Ecologia Umana. In tale evoluzione, non lineare, vi è anche l’apporto della tecnologia digitale, che aiuta il cittadino del presente e del futuro stato globale federato ad essere più artefice del proprio ambiente e costruttore del proprio destino e la scuola lo aiuta se ne è capace. Prefiguro uno stato futuro unico e globale con il modello liberale e il metodo democratico pluripartitico, ma con unica bandiera a più di 196 stelle degli attuali stati federati. Solo in questo modo verranno abolite guerre mondiali fratricide e sarà valido il monitor:” Our peace shall stand as firm as rocky mountains. La nostra pace sarà ferma come montagne rocciose”. (William Shakespeare). Per il tipo di democrazia mi riferisco a quella liberale con l’equilibrio dei tre poteri: parlamentare, magistratura ed esecutivo. Pietro Calamandrei, padre costituzionalista, ci ricorda: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale. Ecco dunque il valore del docente- da me svolto per circa 4 decenni in Italia e all’estero- che lascia il segno nel discente, futuro cittadino e non suddito di ideologie spesso non liberali. Come Internet sta cambiando il nostro ambiente vitale, come ha già cambiato la sfera pubblica e la democrazia? Per rispondere gli esperti non sono unanimi, emergono posizioni ricche e plurali. Attraverso un’analisi ambientale dei digitali cambiamenti sociali, si cerca di comprendere per governare i problemi aperti della crisi dei partiti e dei media tradizionali, l’affacciarsi di nuovi intermediari (come le piattaforme digitali), la frammentazione e la polarizzazione della sfera pubblica, la sfida della partecipazione online fra limiti e opportunità, l’ipotesi della democrazia digitale. Se c’è uno che ha più diritto di parlare di tecnologia digitale sicuramente è il Fisico Federico Faggin più che i soliti umanisti troppo spesso tradizionalisti di fatto e innovatori di moda.Tra i padri del microchip, ideatore della tecnologia touch, Federico Faggin è il principale inventore italiano, da tempo trapiantato a Silicon Valley. Di recente è uscito in Italia la sua autobiografia “Silicio” (Mondadori) e mentre si celebrano i 500 anni dalla morte di Leonardo, i 700 di quella di Dante Alighieri, Faggin offre una straordinaria riflessione sull’identità degli italiani. Identità che non ha bisogno di muri, barriere o nemici da combattere per affermarsi. Ma che ieri come oggi si realizza nella capacità unica di osservare problemi complessi da angolazioni diverse, trovando soluzioni creative che hanno spesso anche un valore artistico ed estetico. In California, Palo Alto 23 marzo 2019, “Intervista in esclusiva per Italiani di Frontiera”. Faggin dice che l’italiano ha dentro una cultura dell’armonia che lo rende unico quando ipotizza soluzioni nuove ai problemi anche tecnici. Il web è il luogo dell’informazione libera e autonoma o le informazioni si stanno organizzando attorno a inediti centri di potere? Internet promuove un pluralismo dialogico o rischia di nutrire una crescente polarizzazione? La democrazia rappresentativa è da superare oppure rimane la soluzione migliore per governare? La democrazia è certamente un sistema aperto (quindi sempre imperfetto e in evoluzione), ma è anche responsabilizzante: è compito dei cittadini e delle classi dirigenti gestire al meglio gli esiti dell’innovazione tecnologica. Da anni ormai vi sono le neointermediazioni per prenotare un volo o un hotel ad esempio si va su una delle tante piattaforma digitale. Inoltre Google e Facebook scelgono che notizie darci e in che ordine, spesso con criteri legati al gusto delle persone ma comunque, secondo alcuni sociologi poco neutrali, non obiettivi e neutrali. Già il movimento Occupy Walstreet si era già accorto di essere poco visibile su Twitter: nonostante la mole di traffico prodotto non finivano mai nei trend. Si trattava di censura? Non lo sapremo mai, dato che gli algoritmi delle grandi compagnie sono privati”. Ma leggiamo chi ha in mente la cultura che il privato è un demone e il pubblico è l’angelo (del male direi). Che effetti ha tutto questo sui processi democratici? “La neointermediazione vale anche qui: gli intermediari classici come i partiti tradizionali, i sindacati e i giornali sono in crisi. C’è un calo consistente sia nella membership partitica che nella partecipazione elettorale, parzialmente compensato dal proliferare di nuovi schemi di partecipazione via internet: i filtri però rimangono, così come l’importanza di avere un gruppo dirigente. Anche solo per decidere cosa mettere ai voti e per quanto tempo, come ad esempio accade su piattaforme come Rousseau”. Com’è che internet sta cambiando la nostra democrazia? “Innanzitutto la sfida. Ne sfida gli intermediari classici che oggi sono in crisi: dai partiti tradizionali a quelli personali di tipo televisivo. Crisi che però è anche trasformazione: sta nascendo un nuovo genere di comunicazione, di tipo non solo razionale ma anche emotivo. A questo riguardo i leader hanno stili diversi: alcuni puntano sulla speranza, altri invece sulla paura, e in questo il digitale dà molte frecce al loro arco perché è multimediale: mette insieme testi, immagini e suoni con velocità e pervasività. E, come ci insegna la vicenda di Cambridge Analytica, permette di personalizzare ogni messaggio sollecitando i cittadini in modo molto più preciso rispetto al passato, utilizzando la profilazione delle tracce lasciate dai nostri comportamenti on line”. E ancora la paura degli pseudo scienziati: Che caratteristiche ha questo nuovo tipo di comunicazione? “È più persuasiva ma ha anche dei costi, che comportano la frammentazione e la polarizzazione dell’opinione pubblica. Un processo iniziato già prima dell’avvento dell’era digitale ma che è accelerato soprattutto negli ultimi anni: oggi abbiamo non una ma tante piccole piazze, che spesso rischiano di non riuscire a interagire tra loro. La Rete sta cambiando la democrazia e i suoi protagonisti, permette strategie comunicative più potenti e precise, ma anche rischia di ridurre la nostra abitudine al confronto pluralistico”. Poi si interrogano e pontificano con culture superate dalla storia perché ideologizzate da miti. Si tratta di processi nuovi? “In realtà è costante negli esseri umani la tendenza all’omofilia, a frequentare chi la pensa come noi. In fondo la società italiana è sempre stata molto divisa, con contrapposizioni spesso forti e non basate sullo spirito dialogico. Con internet però c’è un aspetto nuovo, che non riguarda soltanto le persone politicamente più attive, le quali tendono naturalmente a essere più sicure delle proprie idee e quindi ideologicamente estremiste. In un contesto ‘reale’, come può essere quello lavorativo, è più facile entrare in contatto con una pluralità di posizioni, mentre su internet si tende a stabilire relazioni solo con quelli con cui si va d’accordo. In secondo luogo le piattaforme tendono a offrirci solo contenuti aderenti ai nostri gusti, quindi c’è il pericolo di una sorta di ‘inscatolamento’ nella propria bolla, con la conseguente perdita di contatto con la realtà”. Ed eccoli a pontificare schierandosi contro la tecnologia digitale che libera il suddito e lo immette lungo la strada del cittadino, artefice del proprio ambiente e costruttore del proprio destino e quello, in parte, dei figli che li guida senza più maestri ideologizzati a priori dell’informazione che dovrebbero fornire in modo aggiornato e neutrale. Per descrivere la situazione attuale lei conia il concetto di ‘democrazia dialogica imperfetta’: cosa intende esattamente? “Che la democrazia è sicuramente un modo per gestire la successione al potere e la pace sociale, ma oltre a questa definizione ‘minimalista’ essa serve anche a creare uno spazio per il dialogo e il confronto, al fine di prendere decisioni razionali e condivise. Le possibilità di dialogo sono sempre imperfette, ma non per questo vanno necessariamente svilite o abbandonate. Molte persone attraverso internet cercano e spesso riescono anche ad avere un confronto, come i debunker e i blogger: un dialogo altamente imperfetto ma comunque positivo, e soprattutto in continua evoluzione. È vero che sulla rete a volte si rischia di disinibire alcuni freni inibitori, ma essa è tutt’altro che quel luogo dell’odio di cui spesso si parla: dovremmo rendercene conto proprio in questi giorni”. Dunque vi sono pure aspetti positivi e finalmente si è scoperto che è l’uso della tecnologia che può essere positivo oppure negativo.
Non si è padroni del mondo se prima non si è re di se stesso, diceva Antonio da Padova nel 1200. Dal mare e Canale d’Otranto, tre soli lustri fa, in compagnia del collega locale, Francesco Masi, di suoi dinamici amici salentini ed altri colleghi con studenti stranieri, ho visto e percepito un ambiente del’Italia in modo un po’ diverso: l’ho conosciuto dal tacco dello stivale o giardino del mondo per natura e cultura. Si ha l’impressione che anche il nostrano Sud sia ricchissimo di tutto e non gli manca niente neanche il buon clima che in pianura padana spesso è quasi continentale. In Salento ma non solo della estesa e pianeggiante Puglia, abbiamo visitato realtà dinamiche imprenditoriali, grazie anche alla consapevolezza dell’amico Francesco Masi, figlio d’arte perché il padre conduceva un consorzio agrario. Mi ha fatto vedere industrie di produzione di olio in chiave moderna con l’uso del succo di limone dentro e controllato in collaborazione con università d’avanguardia statunitensi, taralli prodotti su vasta scala, castelli e chiese colme di segni della memoria storica a cominciare dalla chiesetta di Galatina che richiama la Cappella degli Scrovegni di Padova per non pochi aspetti artistici. Il Salento è stata una mia conoscenza recente per l’ambiente naturale e culturale da rivedere.
Ricevo dal dir. R. Tripoli la Rivista Lucidamente con interessanti articoli d’attualità e vi ho contribuito per chiarire alcuni concetti ambientali. In tale rivista leggo: ”La tecno-scienza e la malattia del Vecchio Continente”. Nel saggio “Il mito dell’Europa” Vittorio Grosso affronta la neodittatura contemporanea: l’arrogante ideologia progressista mondialista. Se, appena 10-15 anni fa, vi avessero detto che nel 2020 la maggior parte della gente per strada, invece di guardarsi attorno, ad ammirare persone e paesaggi, a parlare e comunicare con gli altri, sarebbe stata con gli occhi fissi e le dita delle nevrotiche mani compulsivamente agitate su un piccolo schermo, ci avreste creduto? E se avessero aggiunto che ci sarebbe stata imposta per anni una mascherina chirurgica sul viso? E, ancora, che avremmo lavorato prevalentemente da casa, che bar e ristoranti, insomma la splendida gastronomia italiana, sarebbero stati chiusi a vantaggio di orrende cibarie da asporto consegnate a casa da poveracci sfruttati da multinazionali, magari start up? In tempi di pandemia infinita, forse occorrerebbe porsi qualche riflessione e dubbio sull’arrogante dominio di scientismo e tecnologie abbinati l’uno alle altre, in un fanatico sodalizio senza freni che si sta rivelando letale per l’umanità. In questo periodo all’Università di Padova si dibatte anche sui pericoli della rete digitale, che non pochi vedono gravi prima dei 12 anni, ma ciò potrebbe riguardare anche il consenso del minore al trattamento sanitario, tesi svolta da mia figlia a giurisprudenza, ecc.. Non mi stancherò mai di ribadire che per Ambiente bisogna intendere non solo quello naturale, ma anche quello economico, culturale, ecc. Ambiente come sistema di Natura e Cultura dunque. Da qualche lustro si parla di stress da tecnologia digitale, che è la conseguenza di una sorta di sudditanza o dipendenza dal computer e sue versioni più piccole. Ad esempio il percorso formativo che propongono, in uno dei corsi che mi propongono via e mail e on line, ha l’obiettivo di esaminare il rischio da tecnostress, inscrivendolo in una più complessiva riflessione sull’applicazione delle misure ergonomiche nei luoghi di lavoro con particolare riferimento alla situazione attuale in cui molti lavoratori si trovano a lavorare in smart working. L’articolo 28 del Testo Unico D.lgs 81/08 prevede l’obbligo di valutare tutti i rischi presenti nei luoghi di lavoro. In ottemperanza a tale disposizione i Documenti di Valutazione del Rischio (DVR) devono ricomprendere al proprio interno anche una specifica valutazione dei rischi stress lavoro correlati. Tuttavia spesso le valutazioni hanno trascurato un aspetto di grande rilevanza e attualità: quello del rischio stress che il sovraccarico informativo può comportare per quanti fanno abitualmente uso di apparecchi informatici e digitali. Non hanno cioè esaustivamente affrontato quello che, utilizzando un termine coniato nel 1984 da Craig Brod , si definisce tecnostress. E’ interessante constatare che alle innovazioni, ancora rivoluzionari per oltre la metà dei quasi 8miliardi di persone globali, ci sono già quelli stressati e forse vanno a caccia di innovazioni sulle innovazioni digitali. Il tema è attualmente oggetto di particolare attenzione in quanto la Magistratura, ha avviato indagini per verificare se il tecnostress sia riconoscibile come malattia professionale. La costiere amalfitana si è digitalizzata come nuovo modo di stimolare il turismo. Il “Box I Love Costiera” contiene un banner stampabile su cui sarà visibile un QR-Code con collegamento diretto alla guida delle costiere, che sarà aggiornata quotidianamente.
Nel 2004 con l’intera commissione d’esame in Germania, a Colonia, andavamo, di Domenica o a fine esame di maturità dell’italiano liceo Italo Svevo, a visitare l’ambiente tedesco sotto l’ottima guida del collega di Lettere, Nicola Prebenda, di Ariano Irpino ed ex prof. del MAECI in Francia e Grecia poi Dirigente sc. e oggi scrittore attivo in Irpinia. Allora, almeno io, vidi molti tratti di una tecnologia utilizzata in quell’ambiente economicamente e socialmente più avanzato del nostro. La rivoluzione digitale, o rivoluzione informatica, è iniziata dagli anni Cinquanta nei paesi industrializzati, che ha visto il passaggio da una tecnologia meccanica ed analogica a una tecnologia di tipo digitale. Ci si può riferire alla rivoluzione digitale anche con l’espressione rivoluzione informatica, dove la parola rivoluzione non è usata casualmente, o con leggerezza, ma viene adoperata per esprimere l’impatto dei colossali cambiamenti sociali operati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Gli smartphone, il World Wide Web (il famoso “www” da inserire prima dei siti) hanno radicalmente cambiato la quotidianità di tutti coloro che abitano in un paese avanzato, incrementando i canali di informazione e comunicazione e dando inizio all’era dell’informazione. Le tecnologie che maggiormente stanno modificando la nostra quotidianità sono essenzialmente 4, dispositivi mobili: gli smartphone, dispositivi multifunzione, ci permettono di raggiungere informazioni e di comunicare in una quantità ristretta di tempo; social network: inutile negarlo, i social network costituiscono il mezzo principale per intrattenere rapporti di ogni tipo, anche lavorativo, nonché di raggiungere contenuti creati dagli utenti stessi;cloud computing: offre la possibilità di conservare informazioni in uno spazio non fisico, permettendoci di recuperarle in qualsiasi momento. Internet delle cose: costituisce convergenza tra il mondo reale e quello virtuale, collegando gli oggetti fisici, di uso comune, alla rete. Sveglie che suonano prima in caso di traffico, vasetti delle medicine che avvisano quando dimentichiamo di prendere le medicine. La rivoluzione digitale, ha creato un terreno fertile sul quale è nata poi la New Economy. In generale, si può parlare di New Economy nel momento in cui l’introduzione e la diffusione di tecnologie innovative, come quelle che si sono sviluppate negli ultimi dieci anni, comporta dei cambiamenti nell’assetto economico e sociale di uno stato, determinando una crescita sia della produttività che della ricchezza, con un’annessa trasformazione degli stili di vita degli individui-consumatori. G. Giacomini, nell’ambito della sociologia della comunicazione presso l’università di Udine, dove coordina il master in filosofia digitale, scrive: “Sulla Rete dobbiamo tenere presenti concetti fondamentali come la trasversalità e quella che Andrew Chadwick chiama ibridità. Il digitale non ha cancellato tutto quello che c’è stato prima: quando è nata la scrittura non per questo abbiamo smesso di parlarci. Proprio in questi giorni stiamo vedendo che, pur essendo una risorsa enorme e preziosa, internet non può sostituire le altre forme di comunicazione orale e scritta, le quali insieme compongono il nostro modo di relazionarci esattamente come i vari strati formano il terreno”. Giacomini nella sua attività di ricerca si occupa in particolare del rapporto tra Rete e sistemi politici, tematica a cui ha dedicato il libro Potere digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia (Meltemi 2018). “Anche in politica non ci si può limitare a puntare tutto su internet – spiega ai lettori de Il Bo Live. È proprio l’uso coordinato dei diversi canali a contribuire a far circolare e a rafforzare i contenuti”. L’ambiente del territorio del Mezzogiorno è vario e diversificato per almeno due delle sue parti principali. Vi è l’ambiente naturale montuoso di buona parte del territorio appenninico dove l’economia è più tradizionale, bassa è la densità demografica e alto è il tasso d’emigrazione soprattutto giovanile e professionalizzato, di cui molti laureati. Di complementare vi è un ambiente pianeggiante e costiero ricco di risorse naturali, ma economicamente e socialmente non bene organizzato e ad elevata densità demografica. Nell’ambiente del Mezzogiorno d’Italia, in area non solo metropolitana (NA-BA-PA), i problemi sociali sono inficiati anche dall’amplificatore della malavita organizzata più di altre parti dell’ambiente italiano. L’endemico problema del riciclaggio e dello smaltimento dei rifiuti, soprattutto in ambiente napoletano, resta irrisolto al di là se al governo regionale vi siano persone di centrodestra che di centrosinistra. La malavita organizzata è come una ragnatela con i propri fili sottesi in tutte le maglie della distribuzione merceologica per accrescere il capitale camorristico e in non pochi uffici pubblici dove usa mazzette ed intimidazioni come arma di persuasione. Ben altri problemi ha l’ambiente veneto e il capoluogo regionale di Venezia. Secondo la tradizione, quest’anno, la città dovrebbe festeggiare i 1600 anni dalla sua fondazione. Tuttavia pare questa sia solo una leggenda e che le origini di Venezia non siamo incerte e varie. Essa sarebbe sorta a partire dal 25 marzo 421 quando fu posta la prima pietra per costruire la Chiesa di San Giacometto. Sembra che il primo insediamento a Venezia sia avvenuto in un’isola della laguna che si presentava alla popolazione del tempo un po’ più alta delle altre e che proprio per questo era nota come Rivus Altus, termine da cui poi è derivato il nome Rialto. Tuttavia lo storico G. Ravegnani, studioso del mondo bizantino ed è stato anche prof. a Ca Foscari, denuncia come la data del 25 marzo sia solo un mito che nasce da una leggenda medioevale. La fondazione di Venezia non si può ricondurre ad una data storica precisa e sono almeno due le visioni che riguardano la fondazione della città. La prima ipotesi deriva dall’idea di fondazione da parte di profughi troiani, analogamente a Roma, Padova, ecc., mentre la seconda vede Venezia nascere con l’invasione di Attila. Infatti, quando gli Unni distrussero diverse città del nord est, come Padova, Oderzo e Aquilea, molti profughi decisero di stanziarsi intorno al Rivo Alto, oggi Rialto, e a Torcello. Altri vedono Venezia sorgere da un processo evolutivo con flussi migratori lenti che hanno consentito lo sviluppo graduale della città. Parlare di fondazione per quanto riguarda la città di Venezia sembra dunque sbagliato dato che questa è una località nata su una laguna secondo un processo tanto unico quanto raro. Fatto sta che l’ambiente veneziano è unico al mondo ed è ammirato da oltre 30 milioni annui di turisti.
Quando insegnavo a Venezia, gli studenti chiamavano piazza San Marco: “Salotto del mondo”. Adesso che il Mose a Venezia comincia a funzionare si respira più ottimismo per le opere colossali ed anche per ribadire l’efficientismo veneto del fare e non solo del dire. Secondo la tradizione che molti non conoscono, Venezia sarebbe nata il 25 marzo dell’anno 421 e quest’anno, quindi, la città dovrebbe festeggiare i 1600 anni dalla sua fondazione. Tuttavia pare questa sia solo una leggenda e che le origini di Venezia non siamo molto chiare, ma ciò vale per molte altre città. Pochi sanno che l’ambiente di Venezia attuale deve molto al generale romano di stanza ad Aquilea, sfollata in laguna per l’arrivo di Attila, che teneva contatti con Costantinopoli, che gli forniva truppe ed altro anche dopo la conquista ottomana. Ogni regione ha un suo ambiente? Ma allora ci sono 20 ambienti in Italia? Perché no anche se non cosi nettamente distinti come appaiono poiché vi sono valori, consuetudini e linguaggi nazionali da oltre un secolo e mezzo, ancora poco tempo per ridurre le tipicità anche negative. Vi sono indubbi fatti positivi reali come “La Campania è la seconda regione italiana, dopo il Lazio, per nuove aziende guidate da donne. E’ quanto emerge dal IV Rapporto sull’imprenditoria femminile, realizzato da Unioncamere, presieduta in Campania da Ciro Fiola. Sono Lazio (+7,1%), Campania (+5,4%), Calabria (+5,3%), Trentino (+5%), Sicilia (+4,9%), Lombardia (+4%) e Sardegna (+3,8%) le regioni in cui le aziende “rosa” aumentano oltre la media. In termini di incidenza territoriale, sul totale delle imprese, al vertice della classifica si incontrano invece le tre regioni del Mezzogiorno più piccole (Molise, Basilicata e Abruzzo), seguite dall’Umbria, dalla Sicilia e dalla Valle d’Aosta. Di fronte al Covid, però, in tutto il Paese molte aspiranti imprenditrici devono aver ritenuto opportuno fermarsi e attendere un momento più propizio. Tra aprile e giugno, infatti, le iscrizioni di nuove aziende guidate da donne sono oltre 10mila in meno rispetto allo stesso trimestre del 2019. Questo calo, pari al -42,3%, è superiore a quello registrato dalle attività maschili (-35,2%). Dal media casertano su cui scrivo spesso leggiamo spesso di realtà produttive agricole campane ma di insegnamenti di qualità. “Il dato dell’incremento di imprese femminili in Campania ci incoraggia e ci fa ben sperare per il futuro, commenta presidente della Camera di Commercio di Napoli. Camera di Commercio e Unioncamere sono concretamente al fianco delle forze produttive. In questo senso lo stanziamento di 40 milioni di euro previsto dalla Camera di Commercio rappresenta un segnale strategico a cui ne seguiranno presto anche altri”. Ad esempio sull’agricoltura digitalizzata, il 14 gennaio c.a. c’è stato l’ appuntamento online per discutere dei vantaggi della digitalizzazione nel settore agricolo e dello stato dell’agricoltura 4.0 in Puglia. Si confronterà con alcuni esperti anche il Sottosegretario alle Politiche Agricole. Al termine dell’incontro Neetra premierà le tre organizzazioni vincitrici del bando “La Puglia non è arida”. Due anni fa rividi l’entroterra ambientale agricolo barese e mi rallegrai nell’osservare filari ordinati di ulivi, ed altre piante da frutto. Sembrava la silicon valley italiana, se poi si riesce a digitalizzare può anche essere e non sembrare soltanto. La digitalizzazione del settore agricolo offre molteplici vantaggi e l’attuale emergenza sanitaria ha fatto emergere il ruolo e l’importanza della digitalizzazione come fattore di resilienza sociale e di sviluppo economico. Nonostante siano già state attuate diverse misure in tutta Europa per lo sviluppo dell’agricoltura di precisione, tuttora lo sviluppo di questo importante comparto del Paese non decolla verso il suo pieno potenziale. Per comprendere meglio i benefici delle innovazioni tecnologiche applicate all’agricoltura di precisione in Puglia, dove si è svolta la tavola rotonda “Agricoltura digitale, sostenibile e resiliente” organizzata da Neetra, azienda barese specializzata in tecnologie broadcast e IoT, in collaborazione con Coldiretti Puglia, Confcooperative Puglia, ecc.. L’innovazione è centrale nella programmazione dell’Unione Europea, dalla nuova PAC al Green deal fino al Next Generation EU, nonché asse portante della strategia agricola messa a punto nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Gli imprenditori dell’agrofood, gli operatori agricoli e i tecnici del comparto necessitano di indicazioni di base da cui far partire le scelte. L’azienda, partner del Politecnico di Bari e del CERN di Ginevra, ha messo a punto con le proprie tecnologie il sistema Agrismart, dispositivi IoT già installati presso varie aziende del territorio pugliese, che consenteno la valorizzazione dei prodotti delle diverse coltivazioni seguite. Sono state premiate le tre organizzazioni vincitrici del bando “La Puglia non è arida”, a ciascuna delle quali sarà donato un sistema Agrismart IoT. Neetra vanta un know-how specialistico che la rende un partner nello sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative mondiali. A me piace ricordare anche il monito di Nelson Mandela“La mia più grande ambizione è che ogni bambino in Africa vada a scuola perché l’istruzione è la porta d’ingresso alla libertà, alla democrazia e allo sviluppo” . Tutto il sud del mondo dove l’agricoltura è il settore economico basilare e trainante l’economia. Dei 51 stati africani conosco meglio il Kenya, il suo ambiente economico, sociale e religioso nonché naturale come la Rift Valley e le missioni italiane cattoliche attive come quella padovana diretta dal Vescovo Luigi Paiaro, che ho incontrato a Nairobi.
La digitalizzazione del sud del mondo è prioritaria, soprattutto, in agricoltura e servizi, ma lo è anche per il Mezzogiorno italiano ed europeo: Bulgaria, Grecia, Spagna, Portogallo e Romania Slovenia, ecc.. L’impatto culturale della rivoluzione digitale potrebbe sintetizzarsi con l’interrogativo storico: “Cittadini, vorreste una rivoluzione senza rivoluzione?”. Questo chiedeva Robespierre ai suoi concittadini francesi, e non a torto, dato che ogni rivoluzione porta con sé un cambiamento, uno sconvolgimento, si potrebbe dire, della realtà attuale. Ignazio Silone scriveva che conservare può significare miseria, innovare può significare distruzione. La rivoluzione digitale non fa certo eccezione, essa ha già cambiato molto le nostre vite e le cambierà ancora. Nel corso degli anni ci siamo già adattati a molti dei cambiamenti che la rivoluzione digitale ha operato: non vediamo più i nostri programmi preferiti su una televisione spessa, ma su una a schermo piatto, e non diamo più dei colpetti quando non funziona (ogni tanto qualcuno ci prova ancora), quando ci misuriamo la febbre non vediamo più una colonna di mercurio che sale verso la nostra temperatura, non aspettiamo più giorni per ricevere una lettera o una comunicazione, non battiamo più a macchina, non usiamo le cartine per recarci verso una destinazione, insomma, la nostra vita è decisamente diversa rispetto a pochi anni fa. Non è solo il nostro tempo libero, ad essere stato modificato dall’introduzione di queste nuove tecnologie, ma anche settori quali la pubblica amministrazione, con l’abbandono della modulistica cartacea con il risultato di snellire le pratiche burocratiche, la sanità, con lo sviluppo di tecnologie per il monitoraggio della salute, o persino l’agricoltura, grazie alla diffusione di tecnologie che possono aumentare la produttività. Quella digitale appare, quindi, come una rivoluzione altamente pervasiva che riguarda tutti gli aspetti della nostra quotidianità. Si può vivere senza le tecnologie digitali? Per molti, la rete e la tecnologia costituiscono un bene secondario, non direttamente necessario al benessere dell’individuo, mentre considera prioritari beni quali l’elettricità, senza la quale non si potrebbe vivere. Tuttavia è in realtà possibile sopravvivere anche senza elettricità, basta soltanto fare scorta di candele. Il punto è che si vivrebbe isolati dalla società, soprattutto in contesti dove tutti si servono delle nuove tecnologie. Fingere che l’innovazione tecnologica, in conclusione, non esista non rende la vita impossibile, ma la peggiora. Non sono pochi quelli che si sono ostinatamente opposti al progresso che è innovazione più che conservazione, della miseria!
Giuseppe Pace (perf. in Ecologia Umana e Ingegneria del Territorio dell’Università di Padova).
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